Cara dr.ssa Baldi,
ho molto apprezzato il Suo articolo allegato, che trasmetto ai miei collaboratori insieme con queste mie considerazioni. Molti di loro ricordano molto favorevolmente il Suo intervento psicologico davvero prezioso presso la nostra Unità Operativa.
Condivido la Sua metafora delle “scarpe di cuoio” (a Milano -un tempo città industriale-  si diceva mutande di ghisa… ma il concetto è quello). I suoi contenuti  mi trovano in completa sintonia.
Cito soltanto alcuni punti fra i molti:
-la perniciosa dicotomia fra sofferenza fisica e psichica (quest’ultima, condivisa da molti operatori, e ritenuta di regola irrilevante in contesto ospedaliero)
-la mancanza di formazione e supervisione psicologica del personale sanitario
-la formalizzazione del tempo di comunicazione come tempo di cura (e riabilitativo in particolare) (“tempo sprecato”, secondo la visione dominante)
D’altro canto, chi mi conosce sa che una mia teoria eretica prevede che la specializzazione più affine alla Fisiatria non sia né l’Ortopedia né la Neurologia ma la Psichiatria.
Non conosco le tecniche di Mindfulness ma sono certo che non sarebbe tempo sprecato proporle a unità operative con forte “mission” relazionale, dove si cerca un “farsi carico” e non la prestazione (forse di meno in Oculistica, certamente di più in Riabilitazione o in Oncologia). Purtroppo, i tempi di lavoro degli operatori non comprendono certo queste esperienze.
Vorrei solo aggiungere, a commento del Suo nitido articolo, che i guai che Lei ben sintetizza fanno parte di una più ampia deriva del modello scientifico contemporaneo (non solo medico). Di conseguenza, questi guai  possono essere  attenuati ma non superati soltanto con interventi “aggiunti” alla professionalità, diciamo così, “tecnico-clinica” (come se non fosse cosa “tecnico-clinica” anche gestire le relazioni di cura). Finché scienza è cercare una verità che “sta dietro” (all’infinito, ovviamente) quanto ci appare, finché scienza è la genetica ma non la medicina fisica e riabilitativa, finché fenomeno=finzione/menzogna, la persona nel suo complesso apparirà sempre più una superficiale (e fastidiosa) illusione, un “fenomeno”  di cui liberarsi, per entrare nelle sue cellule (che dico, nei suoi atomi….) e trovare la cura definitiva ed eterna. I medici non servono (figuriamoci gli psicologi), servono ingegneri e biologi, giusto? Come vede, il problema è prima scientifico, poi etico.
Mi congratulo quindi per i suoi sforzi di supportare un modello relazionale della cura (che, appunto, prevede almeno due persone, non una persona e un organo). Personalmente continuerò a cercare di difenderne la scientificità: il che significa tirare per la giacchetta il modello scientifico verso qualcosa di meno riduzionistico-deterministico e allontanare la medicina da una deriva biologica estremista, senza mai rifugiarsi in medicine “alternative”. Lei giustamente riporta riferimenti alla cultura orientale (e quella greca pre-sperimentale), che è molto meno dicotomica-dualistica della nostra. Sono riferimenti molto stimolanti. Credo però che lo sforzo prioritario, per chi vuol fare della clinica una scienza, sia quello di non considerarli né “altro” dalla bio-medicina contemporanea  (che dopo tutto -fra mille grattacapi- ci ha dato un’attesa di vita mai vista prima), né una “aggiunta” umanistica ad un nocciolo duro biologico. Sarebbe dualismo mascherato anche questo.
Come fare? Discorso difficile, ma chissà mai che la dicotomia si possa suturare, prima o poi.
Molto cordialmente

Prof. Luigi Tesio
Ordinario di Medicina Fisica e Riabilitativa
Università degli Studi di Milano
Direttore Dipartimento di Scienze Neuro-riabilitative
Istituto Auxologico Italiano, IRCCS

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