Dopo aver attraversato l’ esperienza traumatica della pandemia (non ancora totalmente risolta) si rende necessario rivolgere cura ed attenzione al personale socio-sanitario particolarmente esposto già in condizioni normali al rischio burn out e su cui un evento così tragico può averne acutizzato gli effetti, quali logoramento, perdita di motivazione e di energia, senso di fallimento etc.
In un’occasione come questa diventa urgente accompagnare il personale curante a ritrovare l’energia e l’equilibrio indispensabili alla ripresa della propria attività professionale, poiché le persone potranno soffrire meno, il giorno in cui sarà loro possibile parlare dei tragici eventi, esterni ed interni, con qualcuno, che abbia una robusta competenza e preparazione clinica per aiutarli nell’elaborazione di quanto è stato attraversato e vissuto.
In questo modo si va a dare coerenza agli accadimenti, come se si riparasse una ferita percepita in parte come ingiusta, ma spesso sentita altresì come una grande fonte di rabbia.
Gli esseri umani privati della possibilità di mettere insieme la loro storia sono delle anime smarrite, disperse, che potranno riprendere la loro vera identità personale e professionale a condizione che il loro ambiente li lasci parlare, per comprendere in quale modo si possa ritornare alla vita. Dobbiamo ricordare inoltre che la sofferenza psichica non compare immediatamente dopo l’evento stressante o traumatico attraversato. La rappresentazione della catastrofe si forma con un certo ritardo. Generalmente dopo una sciagura e un disastro di particolare gravità i disturbi compaiono dopo un periodo di latenza, che può essere di poche ore, ma anche di moltissimi mesi.
Non dovremmo, quindi, basarci su un ottimismo deresponsabilizzato, contando sul fatto che ogni essere umano può sviluppare una resilienza spontanea e naturale, come a dire che la natura umana è così ben concepita che la vita e il passare del tempo riparerà e guarirà questo genere di ferite… non è così.
L’etichetta di eroi attribuita ai sanitari in questo frangente può diventare facilmente un’arma a doppio taglio in quanto gli eroi “sono tutti giovani e belli “ e in quanto tali non necessitano di niente e nessuno… ma un approccio scientifico ci ha insegnato a diffidare di queste comode e affrettate conclusioni. Quando certe sofferenze si alleviano, non è per una virtù naturale, ma sono il risultato di una ricostruzione, in primis di una solidarietà, insieme all’elaborazione del significato che la tragedia ha avuto per ognuno.
I fattori di resilienza non sono tutti esterni, così come il burn out non può essere risolto soltanto riparando le condizioni oggettive di stress, quali per esempio aumentare il personale in servizio e le risorse a disposizione. Occorre tenere in forte considerazione anche le condizioni soggettive di stress, che sono molto più delicate, perché più intangibili e forse per questo scarsamente considerate, in quanto non misurabili e pertanto così poco riconoscibili. Ancor prima di questa catastrofe, alcuni operatori possono aver percepito una certa fragilità psichica dovuta a molteplici cause: o perché appartenente già alla loro esistenza o emersa in questa professione ad alta componente relazionale etc. La tragedia va a risvegliarla, cioè riporta in evidenza le ferite che non sono state cicatrizzate perfettamente in loro. Ecco perché le reazioni al trauma non possono essere uguali per tutti.
Ognuno di noi risponde allo stress in base alla propria realtà psichica e al proprio vissuto.
La resilienza viene pertanto ostacolata se l’istituzione non prevede degli aiuti psicologici ai reparti, ai team di lavoro.
Se invece l’istituzione favorisce delle forme di sostegno, prendendo in carico la sofferenza del personale sanitario offrendo loro delle azioni e degli strumenti di supporto, gli operatori potranno avere un significativo impulso per iniziare un processo di resilienza.
Sarebbe veramente un grave errore ritenere che la curva discendente dei disturbi traumatici venisse attribuita semplicemente al trascorrere del tempo.
La vita dei sopravvissuti, la vita dei feriti va riorganizzata. I cuori, le anime, le menti di queste persone vanno ricucite. Definire verbalmente le emozioni che costoro hanno attraversato, sentito, percepito e provato è qualcosa che aiuta a gestirle non solo in modo più benefico ed efficace, ma anche a tenerle maggiormente sotto controllo
L’abbandono, la presa di distanza, l’indifferenza, la non considerazione dei danni che gli operatori possono avere subito, paralizza e impedisce il processo di resilienza che necessita non solo di una rassicurazione affettiva, ma anche di un lavoro verbale che a posteriori attribuirà senso e significato al trauma stesso vissuto e potrà restituire motivazione a questi professionisti.